
Sopravvivere senza luce né ossigeno
La biologia insegna che perfino i più semplici batteri e gli archei riescono a prosperare nelle fenditure dei vulcani, negli abissi oceanici e nelle miniere più profonde. Per queste cellule unicellulari l’unica vera necessità è l’acqua, elemento che permette le reazioni biochimiche di base. In teoria, quindi, aree a umidità zero dovrebbero risultare più pulite di una sala chirurgica appena sterilizzata. Ecco due luoghi che realizzano quasi alla lettera questo scenario.
Dallol, il colore dell’inferno
Nel nord dell’Etiopia, a pochi chilometri dal confine con l’Eritrea, il vulcano Dallol mostra un paesaggio che sembra uscito da un set cinematografico fantascientifico.Situato a 48 metri sotto il livello del mare, questo cratere ribolle a 35 °C costanti, circondato da aria densa e irrespirabile. Anticamente qui si apriva un golfo collegato al Mar Rosso. Quando l’oceano si ritirò, rimase uno spesso deposito di sale, profondo circa due chilometri, che intrappolò un focolaio di magma nelle viscere della crosta.
Durante la stagione delle piogge l’acqua penetra fra i cristalli di sale, si carica di sostanze chimiche, raggiunge la camera calda a oltre tre chilometri di profondità e risale come geyser acidi.Il contatto con l’ossigeno forma concrezioni di tonalità giallo-turchese, verdi e arancio.Dal 1926, anno dell’ultima grande esplosione, il cratere ospita un lago di “liquido” quasi fluorescente. Attorno al bacino, minuscoli laghetti appaiono e scompaiono colorando l’intera depressione di sfumature irreali.
Sul piano biologico, però, questa tavolozza è quasi un deserto. I ricercatori del Center National de la Recherche Scientifique hanno tentato più volte di identificare forme di vita.solo in pochi punti, dove l’acidità è leggermente meno estrema, sono stati individuati rari archeobatteri. La combinazione di calore, concentrazione salina ed acidità distrugge infatti le biomolecole prima che possano organizzarsi in veri ecosistemi. Nonostante ciò, con l’attrezzatura adeguata è possibile camminare fra le pozze variopinte all’inizio della stagione secca, quando i geyser non hanno ancora ripreso a eruttare vapore tossico.
Il deserto gelido del ghiacciaio Shackleton
Capovolgendo il mappamondo si raggiunge l’Antartide, dove le Dry Valleys di McMurdo compongono un mosaico fatto di roccia nuda. Le Montagne Transantartiche isolano queste valli dalla calotta principale e generano venti catabatici che toccano i 320 km/h, capaci di spazzare via ogni fiocco di neve. Nel cuore di questa landa si estende il cosiddetto ghiacciaio Shackleton; il nome trae in inganno, perché l’80 % della sua superficie è terreno secco, duro come cemento.
Nel 2021 un team dell’Università del Colorado ha raccolto oltre duecento campioni di suolo per cercare microrganismi adattati a condizioni di freddo e aridità estreme. Un quinto di quei campioni è risultato completamente privo di batteri, un dato sorprendente se si considera la capacità di molti estremofili di colonizzare fessure vulcaniche, miniere profonde o il fondale della Fossa delle Marianne. Sebbene i restanti prelievi contenessero tracce di vita, porzioni del ghiacciaio Shackleton restano, a oggi, tra le aree più sterili conosciute sul pianeta.
Terra e acqua, due estremi opposti
Da una parte l’acidità bollente di Dallol, dall’altra l’aridità gelida delle Dry Valleys dimostrano che la vita, pur straordinariamente resistente, incontra talvolta limiti invalicabili. Due scenari agli antipodi – uno infuocato e salatissimo, l’altro spazzato da venti polari e disidratato – raccontano come la Terra continui a custodire angoli dove la biologia fatica, o addirittura fallisce, a mettere radici.












